venerdì 26 agosto 2011

L'ansia, tra speranza e superstizione

Mi è venuta l'idea, mentre aspettavo notizie dei colleghi rapiti a Tripoli, che se avessi fatto una cosa per loro, tipo non mangiare più dolci o portare a casa le sei bottiglie d'acqua del supermercato senza usare carrello, auto o bicicletta, ce l'avrebbero fatta. Facevo le cose dei giorni normali, ma ogni volta che sentivo un suono non causato da me, il trillo di un passerotto o il trapano dei muratori che aggiustano il palazzo vicino al mio, mi sorprendevo a pensare: "Se non smette entro due minuti, vuol dire che ce la fanno".

Cercavo un segno e, in cambio, io, laica, ero disposta a fare un voto.

Ho conosciuto Elisabetta Rosaspina ai tempi della cronaca, prima che diventasse La Rosaspina. L'ultima volta ci siamo viste all'uscita dell'ufficio postale di Milano e stava per partire per la Spagna. Forse, non mi ricorda neppure.
Giuseppe Sarcina è una conoscenza recente: era di turno all'ufficio centrale del giornale, qualche giorno fa, quando io facevo la notte, coprivo cioè il turno di chiusura per il Politico. Mi sono presentata. Non ha abbaiato, rispondendo invece con curiosità di cronista alle domande che facevo, per ingannare l'attesa fino al controllo delle pagine.

Giornalista stagionale, quale sono, ho ascoltato i suoi racconti di inviato, al Ristorante Rizzoli, e cioè alla mensa di via Solferino, dove non ha mai mancato di invitare me e Leopard, come scherzosamente chiama l'altro stagionale di redazione, Leonard, più giovane e perciò più rampante.

Degli altri due inviati, Domenico Quirico de La Stampa e Claudio Monici di Avvenire, non conosco che la firma, nome e cognome che si sono gonfiati di forma solo in questi giorni, per via del sequestro. Tutti i giornali ti mostrano le foto e ti pare di conoscerli da sempre.

Adesso che tutto è finito, in attesa del prossimo invito di Pino al ristorante, leggo quel che tutti e quattro scrivono della drammatica avventura.
Ma mi colpiscono tre righe in fondo al pezzo di Quirico:

Nel cortile della casa dove eravamo rinchiusi in due gabbiette alcuni uccellini riempivano l’aria del loro canto, indifferenti alle granate al miagolare delle mitragliatrici al rombo dei razzi. Mi è venuta la certezza che non sarei stato ucciso fino a quando quel canto non si fosse interrotto.
Speranza? Istinto di sopravvivenza? Paura?

Nelle mie idee confuse, l'impronta laica cercata in una vita di formazione, ha avuto la peggio. Sono e resto di cultura cattolica, come gran parte degli italiani, cresciuti tra scuole e oratori di questo paese, immagino. E quando togli dio, non resta che la superstizione di far voto a te stesso.


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