sabato 2 febbraio 2013

Marocco: ricamare, comunicare

Per vent'anni ho cercato la parola giusta, il senso di una frase, la pregnanza di un verbo. Tutto inutile. La comunicazione passa attraverso il filo del ricamo, senza voce.
A Tissergat, un piccolo villaggio a otto chilometri da Zagora, nel Sud del Marocco, sono stata accolta nella cooperativa di un gruppo di donne che tessono tappeti e ricamano teli tradizionali. L'immensa palmerie che precede il deserto isola queste ragazze dal mondo. Non conoscono altra lingua che la loro, il berbero. E quelle che in tutti questi anni mi sono sforzata di imparare non sono servite a rompere la diffidenza.

Titubanti, sospettose, mi hanno guardata come da queste parti si guardano le facce bianche, i "romain", gli invasori: un bancomat con le gambe. Ho comprato qualche telo, la prima volta; la seconda, ho cercato inutilmente di scattare fotografie. Si sono nascoste. La terza, ho preso il piccolo telaio che una aveva sulle ginocchia e ho completato il lavoro a punto croce con il filo verde. Il mio modo di condurre l'ago, all'americana, è diverso dal loro, più simile al francese. Se ne sono accorte e me ne hanno chiesto conto. Lo scambio mi ha lasciato qualche termine berbero, la base per un passaggio di informazioni di servizio. "Come ti chiami?". "Come si dice?". La scrittura a ricamo ha potuto di più.

Siamo diventate amiche. Il venerdì mi hanno invitata a mangiare il cous cous nelle loro modestissime case, mi hanno presentato i figli e in qualche modo raccontato le loro storie, anche attraverso il ricamo. La più anziana, tre anni meno di me e dodici figli, mi ha chiesto di sederle accanto, davanti al telaio. E navetta dopo navetta, il tappeto che stava tessendo è cresciuto di una decina di centimetri. Il pettine che mi ha insegnato a manovrare ha sistemato l'ordito. La trama l'aveva impostata secondo tradizione.

Il telo che ho ultimato a punto croce, bianco con ricami verdi, è quello che usano per legare i bambini al loro corpo, sulle spalle. Il tappeto a righe che mi hanno fatto tessere è quello che copre il pane ancora caldo, appena tolto dal fuoco. Il nero dei loro manti tiene lontano gli influssi negativi. Ma sopra, i ricami coloratissimi disegnano una croce che orienta il modo di indossarli e in qualche modo significa. Ci sono girandole per dire il senso della vita, croci capaci di indirizzare i cuori e habibi (tesoro, amore) grandi o piccoli, per trovare l'uomo giusto o per avere bambini.

Quando ho lasciato Tissergat, le ragazze della cooperativa mi hanno salutata con affetto. Quattro baci ciascuna, molti inchallah e persino shiukran (grazie) per le ore passate insieme. Ho scattato foto ricordo, perché alla fine la confidenza che si era creata tra noi le ha convinte a posare. Sono foto ordinarie, turistiche quasi, che non rendono la vita, le storie che girano in quel piccolo locale buio, dove quelle donne passano le ore. Loro mi hanno ritratta, ago e filo, su una sciarpa feticcio. Ci sono io, i miei ricami, la mia risata, la mia passione per i pantaloni, pure condivisa.